Freud sostiene che ogni persona possiede sin dalla sua nascita un “impasto di
pulsioni”, pulsioni sia di tipo libidico che aggressive (Eros e Thanatos),
pulsioni cioè di vita e di morte che risultano in conflitto tra loro.
L’energia libidica e quella aggressiva non si sviluppano, ma hanno
un’origine ontogenetica somatica che si lega indissolubilmente alla psiche, è
espressione della sintesi tra psichico e somatico: sono cioè una stimolazione
della mente proveniente dal corpo (Freud, 1905) presenti nell’organizzazione
psicobiologica dell’individuo. L’ipotesi di Freud è che gli esseri umani non
funzionano soltanto in relazione alle domande e alle condizioni poste
dall’ambiente esterno ma anche in risposta alle richieste e pressioni
provenienti dall’interno.
Nel 1905 Freud riteneva che l’aggressività fosse una componente della
pulsione sessuale e che avesse una funzione specifica nella motivazione alla
conoscenza. In ogni modo riteneva che l’aggressività non fosse indipendente
da qualche altra pulsione di base. Nel 1909 cominciò a prendere in
considerazione il fatto che potesse esistere un istinto di crudeltà indipendente
dalla pulsione sessuale o da qualsisia altra pulsione primaria. Solo nel 1920
in “Al di là del principio del piacere” definì la sua posizione finale parlando
di una pulsione aggressiva. Egli definì la sua posizione teorica secondo la
quale esistono due istinti contrapposti: l’istinto di vita e l’istinto di morte. La
pulsione aggressiva è da lui considerata come una componente di
quest’ultimo. L’istinto di morte alla nascita è rivolto verso di sé, poi viene
deviato verso l’esterno tramite l’influenza della libido e dell’Io. Lo scopo
dell’istinto di vita è quello di creare unità tra le cose mentre quello
dell’istinto di morte è di creare disarmonia, di distruggere le connessioni e i
legami tra gli oggetti o gli elementi psichici.
Freud, in modo confuso ed incompleto, ipotizza che l’aggressivitàdistruttività
sia istintuale-originaria, che sia un comportamento reattivo,
ovvero una risposta alla frustrazione, nel senso di un’incapacità dell’Io di
mediare rispetto ai bisogni intrasistemici della mente. Ma il padre della
psicoanalisi lascia molti spazi di ambiguità su questo argomento, nonostante
gli sforzi e nonostante i suggerimenti che ebbe all’epoca dai suoi adepti
(Migone, 1995).
Tra le teorie postfreudiane, grande rilievo hanno avuto quelle dette
“oggettuali”, o “della relazione d’oggetto”. Queste teorie pongono l’accento,
non tanto sulla spinta di forze endogene, quali fonte e origine dello sviluppo
e del funzionamento psichico, quanto sull’esperienza relazionale
dell’individuo, a partire da quella dei suoi primi anni di vita. Melanie Klein è
considerata capostipite e fulcro di tale impostazione.
Melanie Klein, accoglie l’ipotesi freudiana sulla pulsione primaria di morte e
anzi rivaluta ampiamente il ruolo dell’aggressività nel conflitto tra istinto di
vita e di morte, come tra le angosce e le difese che esso crea. Nonostante
riprenda il concetto di “pulsione di morte” di Freud, la Klein ha un diverso
modo di intendere il medesimo costrutto. In Freud la pulsione di morte
svincolata dalla relazione con l’oggetto consiste nella tendenza naturale
dell’apparato mentale a conseguire il livello energetico più basso (la morte)
quale esito finale della tendenza alla scarica insita in ogni pulsione. La Klein
suppone un’altra visione della mente:
“Sempre attiva, per amare o per odiare, per far vivere o per distruggere,
mai per tendere ad un deperimento naturale. Ne risulta che la pulsione di
morte è considerata di fatto equivalente a quella aggressiva e prevede una
stretta connessione con l’oggetto. Infatti, al suo apparire essa viene subito
fissata ad un oggetto o piuttosto vista come paura di un oggetto super
potente ed incontrollabile” (Klein, 1946, trad. it. 1978).
Klein (1957) attribuisce sin dai primi mesi di vita del bambino una funzione
predominante alle fantasie aggressive rivolte da questi al suo oggetto buono,
la madre. L’aggressività si trasforma nella confusione tra i propri affetti e le
caratteristiche dell’oggetto, in un sentimento persecutorio che dipinge di
cattiveria ciascun oggetto: il bambino si sente in tal senso aggredito e cerca
di difendersi, mettendo in atto meccanismi difensivi illusori. La
persecutorietà, quindi, incrementa in un terrificante circolo vizioso,
l’aggressività difensiva e quest’ultima la prima, e così via. Il bambino è
quindi visto dalla Klein (1957) come un contenitore colmo di odio e
distruttività a causa della sua incapacità di amare: l’odio è infatti automatico,
mentre l’amore deve essere appreso con la progressiva strutturazione
dell’apparato mentale, inizialmente inesistente. In tal senso, l’autrice sovverte
la tesi iniziale di Freud sul primato delle pulsioni libidiche e la nascita
dell’aggressività solo come conseguenza alla frustrazione indotta da tali
pulsioni e ritiene, inoltre, che la libido e l’aggressività siano affetti e non
pulsioni.
Infatti, è ravvisabile una severa forma di aggressività nell’identificazione
proiettiva: l’oggetto diventa cattivo perché il bambino vi ha proiettato le
proprie parti cattive.
In “Invidia e gratitudine” l’invidia, è un fattore innato già attivo nel neonato,
è definita come:
“Sentimento di rabbia perché un’altra persona possiede qualcosa che
desideriamo e ne gode: l’impulso invidioso mira a portarla via e
danneggiarla” (Klein, 1957, trad. id. 1969).
Il bambino nutre fantasie arcaiche di sadismo orale, uretrale, anale. La sua
distruttività è precocissima (Klein, 1921-1958). Nella relazione a due,
l’oggetto è invidiato per qualcosa che ha. A seguito dell’invidia il bambino
depreda la fantasia di un seno che ritiene contenga cose sommamente buone
ma che terrebbe egoisticamente per sé. Secondo la Klein l’oggetto buono
equivale a gratificante ed amabile: è pertanto l’oggetto da desiderare, da
amare e da far vivere. L’oggetto cattivo, invece, equivale a frustrante ed
aggressivo, pertanto da evitare, da odiare e da distruggere.
Si vede così che le qualità affettive di buono o cattivo, di cui l’oggetto è
sempre connotato, sono in corrispondenza biunivoca rispettivamente con la
pulsione libidica e quella aggressiva: a promuovere il comportamento è la
qualità dell’oggetto, determinata da come esso è intenzionato dal soggetto
ovvero da come è sentito rapportarsi a lui. Diretta conseguenza di tale
concezione è l’angoscia che consiste inizialmente nel timore che l’oggetto
aggredito si ritorca sull’Io: è l’angoscia persecutoria a cui segue l’angoscia
depressiva in cui ciò che si teme è la perdita dell’oggetto amato a causa della
propria cattiveria (Klein, 1932). Lo sviluppo umano è interamente concepito
attraverso il superamento di tali angosce che consente una compenetrazione
di aspetti buoni e cattivi nello stesso oggetto e nel proprio Io. Di
conseguenza sia i sentimenti aggressivi che quelli buoni contribuiscono ad
un sano sviluppo dell’individuo qualora si riesca a verificare tale
integrazione. In tal modo si riescono ad affrontare una gamma di fenomeni
normali e patologici nello sviluppo di ciascun essere umano. Ciò che qui ci
preme sottolineare è il fatto che l’aggressività perdendo la sua connotazione
intrasoggettiva, come nel modello freudiano, chiama in causa una relazione
duale.
Anche Spitz (1965), in quanto teorico delle relazioni oggettuali, parla di
pulsioni libidiche e aggressive in relazione all’oggetto che, nel primo periodo
della vita come per la Klein, è rappresentato dalla madre. Il bambino,
inizialmente guidato dal principio di piacere, sperimenta e manifesta
aggressività nel momento in cui l’oggetto non si dimostra “buono” nei suoi
confronti, e benevolenza nel momento in cui l’oggetto buono soddisfa i suoi
bisogni. Con il passaggio dal principio di piacere al principio di realtà si
stabilirà l’oggetto libidico vero e proprio come fusione delle due pulsioni
(aggressiva e libidica) sotto la dominanza della libido. La fusione avviene
nel contesto della relazione con l’oggetto libidico, nel momento in cui il
bambino realizza che l’oggetto buono (gratificante) e l’oggetto cattivo
(frustrante) sono in realtà la stessa persona. Tale conquista può realizzarsi
solo se le esperienze sono state sufficientemente gratificanti da unire la
libido all’aggressività, ma anche sufficientemente frustranti da provocare una
differenziazione tra rappresentazione del sé e dell’oggetto. L’aggressività,
quindi, svolge un ruolo fondamentale nella costruzione dell’oggetto e nella
relazione con esso, poiché, partendo dal ritenere l’aggressività una pulsione,
insieme alla libido, in una sorta di “intreccio fusionale” (Spitz, 1945), essa
risulta essenziale allo sviluppo armonico dell’individuo. Infatti, la
cooperazione tra pulsione aggressiva e quella libidica, permette un “rapporto
oggettuale” sano.
Hartmann e Kriss (1964), nell’ambito della psicologia dell’Io, rigettano,
invece, l’idea caldeggiata da Freud, che l’aggressività coincida con la
pulsione di morte o una conseguenza della frustrazione del soddisfacimento
del piacere, e pongono l’aggressività in relazione con il principio di piaceredispiacere,
al pari della libido. Introducono così il concetto di
“neutralizzazione”, spogliando l’aggressività delle sue valenze negative e
asservendola all’Io nel compimento delle sue funzioni di adattamento
all’ambiente esterno (Hartmann, 1939). La “depulsionalizzazione
dell’energia aggressiva” consiste nel neutralizzare l’aggressività che non
viene rivolta contro l’Io, anzi, l’Io anziché restarne distrutto, ottiene da essa la
“forza motrice” per funzionare e agire (Hartmann, Kris, Loewenstein, 1964).
In altre parole, l’energia depulsionalizzata conferita all’Io/Super-Io può
derivare dalla libido/aggressività ed essere trasformata nell’una o nell’altra;
attraverso la neutralizzazione l’Io elimina la natura sessuale ed aggressiva
delle pulsioni per venire in contro alle esigenze autonome dell’Io.
Alcuni psicoanalisti non ritengono l’aggressività come una “dotazione
innata”. Reich (1933), per esempio, al pari del primo Freud, considera
l’aggressività come una reazione alla frustrazione, tale frustrazione è causata
dalle condizioni sociali che limitano l’individuo stesso. Differentemente da
Freud però, secondo Reich, non esiste una pulsione di morte, ma solo una
libido in eccesso non adeguatamente scaricata, frustrata, e quindi agita per
mezzo di azioni aggressive. Ne consegue che l’uomo non è visto come
intrinsecamente aggressivo. Anche Fenichel, nel suo lavoro “Trattato di
psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi” (Fenichel, 1945), considera
l’aggressività come “non primaria” (pulsionale-innata), ma uno degli
strumenti che l’uomo ha a disposizione per conseguire l’autostima e la
soddisfazione di bisogni e desideri. Ciò si verifica poiché altri
comportamenti adottati nel passato si sono mostrati inefficaci allo scopo, o
perché la persona, a causa di una specifica storia evolutiva, non possiede altri
“strumenti comportamentali” che non siano quelli aggressivi.
Erich Fromm, invece, (1970, 1973), esponente della Psicologia Culturale di
matrice Psicoanalitica, elabora un sistema teorico del tutto contrapposto a
quelli fin qui esposti. Nel suo lavoro fa una critica alla società e ribadisce il
peso dei valori sociali nella generazione di istanze aggressive. Fromm parte
dal distinguere due tipi di aggressività, completamente diversi. La prima
innata, necessaria alla sopravvivenza della specie, la seconda di origine
maligna o “Aggressività maligna” (Fromm, 1973), specifica e quasi
esclusiva nella specie umana ed assunta dall’autore come patologia del
carattere, poiché distruttiva e disadattiva.
Un altro autore che si occupa di aggressività è Mitchell (1995,1993),
esponente del Modello della Psicoanalisi Relazionale. La sua posizione è in
disaccordo con la posizione originaria di Freud, che definisce l’aggressività
in termini pulsionali, nonostante sia convinto del suo ruolo preponderante
nella natura umana. Egli utilizza tale concetto in relazione a quello di
distruttività ed assertività, intesa come auto-affermazione, e separando
nettamente i due aspetti. L’assertività è intesa come un comportamento di
gioia, di impegno e vitale, mentre l’aggressività di cui l’autore si occupa è
quella caratterizzata da distruttività, minaccia e vendetta. L’aggressività
appare come un meccanismo messo in atto al fine di fronteggiare situazioni
percepite come spiacevoli o persecutorie (Mitchell, 1993, 1995). Tali
sentimenti vengono sperimentati sia in relazione ad eventi ambientali che in
relazione al mondo interiore, qualora il soggetto abbia avuto una storia
evolutiva che lo ha condotto ad una disintegrazione del sé. La inquadra fra le
risposte attivate di fronte a sentimenti spiacevoli e di persecuzione, che
possono derivare anche dal mondo interiore, specie se, per una particolare
storia evolutiva, il soggetto vive un sé disgregato. Tale disintegrazione è
strettamente correlata alla rabbia paralizzante ed imperativa che, non
integrata con il resto del sé, può generare sentimenti di derealizzazione. In
questa concezione, quindi, l’aggressività diviene un elemento organizzatore
del sé finalizzato a realizzarne l’equilibrio qualora venissero avvertite
minacce esterne. Nel caso del sé disintegrato ciò non viene realizzato e
l’aggressività può portare alla distruttività (Mitchell, 1995).
Un altro contributo arriva anche dal filone di studi della Infant Research,
grazie al lavoro di Joseph Lichtenberg (1983, 1989). Secondo l’autore
l’aggressività è al servizio di tutti i bisogni dell’organismo. In particolare, i
sentimenti alla base del sistema motivazionale umano sono la rabbia e la
paura che si presentano nelle situazioni in cui il soggetto sperimenta
sofferenza. Pertanto il bisogno di reagire avversativamente, con antagonismo
o ritiro, serve a scaricare eccessi tensionali o per soddisfare meglio i bisogni
di altri sistemi motivazionali, mentre non esisterebbe secondo l’autore una
pulsione aggressiva autonoma fine a se stessa come pensata da Freud.
Anche Kernberg (1981, 1989) ha analizzato le dinamiche dell’aggressività,
il suo lavoro si pone come crocevia tra modelli psicoanalitici; egli, infatti,
rivisita la teoria delle pulsioni, tenendo insieme le teorie degli affetti con
quella, proponendone una concezione innata e pulsionale-affettiva allo
stesso tempo.
Per Kernberg l’aggressività è presente negli affetti, e consente di distinguere
ciò che è piacevole da ciò che non lo è. Attraverso le prime esperienze con il
mondo, e grazie ad altre due proprietà innate quali sono fantasticare e
memorizzare, l’individuo sviluppa inconsciamente una pulsione di vita e una
pulsione di morte. L’aggressività è l’espressione della pulsione di morte
(Kernberg, 1978). Entrambe le pulsioni partecipano allo sviluppo di una
rappresentazione di sé e dell’oggetto e successivamente questa sottostruttura
si consoliderà in una struttura tripartita (es, io e super-io). Nel suo lavoro
Kernberg non svela un’aggressività o una dinamica aggressiva
particolarmente nuova rispetto agli autori che lo hanno preceduto, però ha il
merito di riuscire a tenere insieme apparenti sincrasie presenti tra due
impianti teorici che tentano di spiegare le stesse cose: la teoria delle pulsioni
e la teoria delle relazioni oggettuali. Questo avviene principalmente
attraverso la possibilità di collocare la matrice dell’aggressività negli affetti
già intrauterini, ovvero nell’innata capacità di poter soffrire (ed anche
godere) e dalla relativa primordiale esperienza che possiamo fare di questa
nostra capacità, che solo così potrà strutturarsi in pulsione.

CONCLUSIONI
L’aggressività risulta, dunque, fortemente ancorata al corpo per via della sua
dimensione innata-istintuale. Di conseguenza la sua espressione è vista come
un’attività necessaria allo sviluppo dell’individuo. Il comportamento
aggressivo, a volte si impone rispetto ad altri più conservativi, come nutrirsi
o riprodursi, e ciò spiega, in parte, come mai è possibile osservare
un’aggressività “contro natura” rappresentata per esempio dai casi estremi di
uccisione della prole o dal suicidio.
Come abbiamo visto, alcuni autori intendono l’aggressività come
comportamento inscritto nella componente innata, mentre altri come
reazione alle frustrazioni, dunque indotta dalle condizioni ambientali. Così
l’aggressività non si configura solo come scarica neuro-fisiologica stimolata
dall’ambiente, ma anche come comportamento socio-indotto o inibito sulla
base dei modelli sociali proposti. Ciò a sua volta introduce, accanto ad una
dimensione individuale, anche la dimensione gruppale.
Infatti, se si considera l’aggressività come comportamento di scarica della
tensione, le fonti di accumulo di questa sono individuabili nell’esercizio dei
ruoli gruppali, nel clima del gruppo e nella sua capacità espressiva; ovvero,
l’aggressività dipenderebbe da una serie di norme e regole più o meno
implicite, che generano sia la tendenza aggressiva, ma anche le modalità per
poterla esprimere sia dentro al gruppo che fuori. Emerge in questo caso
un’aggressività implicitamente pensata come naturale nell’individuo e
fortemente modulata dal contesto sociale, che può attivarla o disattivarla
attraverso meccanismi socio-culturali che facilitano la deresponsabilizzazione
dell’individuo.
La società e il contesto assumono, per questo, forte valenza di controllo sul
comportamento aggressivo dell’individuo, che emerge come debole sul
controllo delle proprie azioni, laddove gli si offre un contesto che lo solleva
e lo esonera dai processi di autocolpevolizzazione.
In questa logica, l’aggressività rappresenta l’emblema, per rispondere su un
piano empirico, all’arcaica domanda sulla presenza nell’uomo del bene e del
male, della gioia e della paura (l’eros e il thanatos) e sulle conseguenti
possibilità della mente di ammalarsi dietro l’influenza di un’aggressività
“mal evoluta”. Qui la logica si ribalta, da un’aggressività elicitata e funzione
di una cultura e di una società, ad un’aggressività ontogenetica e insieme
filogenetica, che partecipa allo sviluppo della mente e che può assumere
configurazioni mentali molto differenti, lungo un continuum tra salute e
malattia. In questa ultima posizione di pensiero, l’aggressività, va
considerata come un elemento organizzatore e costituente la personalità; che
è precoce; che è riparatoria-difensiva rispetto a mancanze strutturali di
personalità o economiche; che ha un elaborato dinamismo, nel quale
compaiono affetti e sentimenti come la rabbia, l’odio, l’invidia, l’irritazione.
In definitiva la tradizione clinico-dinamica contribuisce alla conoscenza
dell’aggressività nell’ambito della sua centralità e del suo movimento nello
sviluppo del bambino e nell’ambito dell’uso che ne fa l’adulto per difendersi,
per sfogare, per compensare una identità mal riuscita, per equilibrare una
disorganizzazione affettiva-cognitiva; come agito possibile di una mente che
non è capace di pensare come effetto di un conflitto dinamico intrapsichico
(tra Es, Io e Super-io), come istanza dominante del carattere, organizzatrice
di pensieri ed azioni; o come motivazione sovrastrutturata ad altre che sono
subordinate all’aggressività.
I contributi della ricerca psicologica giungono a considerare l’aggressività un
tratto esistenziale ineliminabile, naturale, un elemento della complessa
dinamica trasformativa della vita, che è presente da subito. Infatti, già il
neonato “fa i conti” con affetti aggressivi (ad esempio: i morsi della fame),
che l’adulto utilizza almeno per tre grandi ragioni: come istinto naturale per
sopravvivere biologicamente ad una minaccia (attacco e/o fuga dal pericolo);
come espressione di un disagio o di una malattia mentale (come sintomo) e
soprattutto come motivazione autorealizzante.
L’aggressività è in ultima analisi, adattativa, è cioè al servizio della vita e ha
la funzione di salvaguardare ambiti vitali di sopravvivenza e di crescita,
sorreggendo la produttività e la creatività.
L’aggressività può dunque essere considerata un elemento al servizio della
propria “carica narcisistica”. Quest’ultima intesa come rassicurazione sul
proprio valore e sulle proprie potenzialità. Rassicurazione che ogni individuo
attende dai genitori, nella fase più precoce dello proprio sviluppo, e
successivamente da ogni altro individuo e dalla società, e che sul versante
soggettivo coincide con l’autostima. Il narcisismo è, infatti, in tal senso, un
elemento determinante ed ineliminabile nello sviluppo della personalità, in
quanto consente la formazione e il mantenimento di un’identità unica e
inconfondibile (Kohut, 1971).

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